Accabadora di Michela Murgia

Sullo sfondo di una Sardegna degli anni Cinquanta, in un paesino di nome Soreni, con le sue regole non scritte ma accettate da tutti, si dipana la storia di Maria, quarta figlia femmina di madre vedova, abituata a pensarsi, lei per prima, come “l’ultima” e di Tzia Bonaria che di mestiere fa la sarta e a cui la sorte non ha concesso di essere madre.

Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, da quando la vecchia sarta ha visto Maria, una bambina di sei anni, rubacchiare in un negozio in segno di disagio per la sua condizione di figlia rifiutata dalla propria madre e, siccome nessuno la guardava, ha pensato di prenderla con sé e la loro intesa diventa speciale. Maria si sentirà per la prima volta chiamata per nome e non come “… lei è l’ultima”, diventerà la fill’e anima di questa madre adottiva,

nata due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra

e questa intesa assumerà il valore speciale delle cose che si sono scelte.

Tzia Bonaria farà di Maria la sua erede, facendola crescere sana e consapevole che ci sono cose che si devono fare e cose che non si devono fare ma che, non necessariamente, coincidono con l’idea del giusto e sbagliato, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno.

Eppure c’è qualcosa di misterioso che accompagna questa vecchia vestita di nero, nei suoi lunghi silenzi, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra.

Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce.

Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per dare una fine dignitosa a chi non riesce ad abbandonare la vita terrena con le proprie forze. Il suo è il gesto amorevole e finale dell’accabadora, colei che dà la morte, l’ultima madre che accompagna, con un gesto pietoso, i moribondi per porre fine alle loro sofferenze, ma solo se veramente voluto dall’interessato senza speranza.

Quando scopre la vera identità di accabadora della propria madre adottiva, Maria si ribella, insorge, fugge nel continente per costruirsi una nuova vita in un’altra città perchè…

Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere quando qualcuno se ne accorge“.

Il racconto subisce, a questo punto, un cambiamento radicale. Ci si sente catapultati improvvisamente in un’altra storia, senza un legame con quella precedente, spiazzandoci. E’ come se l’autrice, con questo cambiamento repentino di scena, abbia voluto trasportare nel racconto la volontà di Maria di dare un taglio netto al suo passato. Ma dal passato non si fugge andando lontano dai luoghi dell’infanzia nel tentativo di “rifarsi una vita”.

Il legame che lega Maria e Bonaria è forte e saranno le circostanze della vita che le faranno rimettere in discussione tutto. Nel momento del bisogno, i contrasti, che sembravano insanabili, verranno messi da parte e l’amore e la devozione che legano Maria e Bonaria avranno la meglio. La ragazza saprà saldare il suo debito di fill’e anima, valuterà diversamente la controversa figura della madre adottiva e comprenderà finalmente ciò che la donna intendeva dirle quando, tre anni prima, nel momento della sua partenza, la salutò con queste parole:

Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”.

Michela Murgia, con questo romanzo ci fa riflettere sul tema controverso dell’adozione e cioè chi deve essere considerato un genitore: chi ha dato la vita ad un essere umano rifiutandolo o chi se ne è preso cura dandogli una vita dignitosa?

Altro spunto di riflessione è sull’eutanasia, argomento controverso ma Michela Murgia solleva il velo su queste problematiche senza dare giudizi, usando uno stile magistrale.

Meritatissimo Premio Campiello 2010. Libro assolutamente da leggere.

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