L’Accabadora

Narra una leggenda che, fino a qualche decennio fa, in una Sardegna che conserva ancora oggi i suoi riti arcaici si praticava l’eutanasia per porre fine alle sofferenze di chiunque si trovasse in una condizione di malattia tale da far invocare dallo stesso malato o dai famigliari la morte.

Il compito era svolto da “sa femmina accabbadora” che, soprattutto nel nuorese, era svolto dalle vedove rimaste sole e in miseria e che venivano mantenute dal vicinato con le elemosine. Si trattava di un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti dei piccoli paesi dell’entroterra sardo, lontani da un medico molti giorni di cavallo, che dovevano fare i conti con le difficoltà di spostamento e, dal momento che l’unica possibilità di sussistenza derivava dal lavoro agricolo, serviva ad evitare lunghe e atroci sofferenze al malato e anche ad alleviare le difficoltà di assistenza da parte dei parenti.

La pratica non doveva essere retribuita dai parenti poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e alla superstizione. Non a caso il rito prevedeva di togliere dalla stanza del moribondo tutte le immagini sacre e tutti gli oggetti a lui cari: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo.

Sa femmina accabbadora arrivava nella casa del moribondo sempre di notte e, dopo aver fatto uscire i familiari che l’avevano chiamata, entrava nella stanza della morte: la porta si apriva e il malato, dal suo letto d’agonia, vedeva entrare questa donna vestita di nero, con il viso coperto, e capiva che la sua sofferenza stava per finire.

Il malato veniva soffocato con un cuscino, oppure colpito a morte sulla fronte con un bastone d’olivo: su mazzolu, una sorta di bastone ricavato da un ramo di ulivo lungo 40 cm. e largo 20, con un manico che permetteva un’impugnatura sicura e precisa. Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, deriva il termine accabbadora, forse dallo Spagnolo acabar, terminare, che significa alla lettera dare sul capo.

La donna poi se andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, ed i famigliari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.

La sua esistenza è sempre stata ritenuta un fatto naturale in Sardegna … come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s’accabadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona e che il suo compito si distinguesse dal colore dell’abito: nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita.

Ma si tratta di leggenda o di fatti realmente accaduti?

Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso musei, hanno accertato la reale esistenza di questa figura.

Pare che in Sardegna s’accabadora abbia esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti di accabadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la signora vestita di nero.

Le donne che svolgevano questa funzione non furono mai condannate e tutti furono concordi che si trattava di un gesto umanitario, come una missionaria che si faceva carico materialmente e moralmente di porre fine alle sofferenze del malato.

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