Una scuola elementare

Anno XXV – N. 329 – L. 60 (arr. L. 120)    QUOTIDIANO DI INFORMAZIONE    *** Ancona, Domenica 8 Dicembre 1968

Una scuola elementare

L’”officina” che modella le anime

Una scuola –una scuola elementare, come è questa della quale narro, soprattutto- più che un incontro di intelligenze e di libri di nozioni e di memorie, ha da essere officina che modella le anime e luogo di incontro. E’ questo il più difficile, come il più alto, dei suoi scopi; ma, attinto questo, ogni altro può esser poi raggiunto, e l’attingerli è come trarre le conseguenze da una premessa ormai sicura. In questo modellare le anime ed essere luogo del loro incontro, la Scuola rende testimonianza all’uomo e all’umanità, allo Spirito che nell’uomo ha il primato per tutto conformare a sé e dell’umanità è il motore.

E’ difficile raggiungere questo scopo; anche se si tratta di una scuola elementare. E’ vero: sono anime fresche, aperte, non ancora solcate e segnate dall’esperienza dei nostri problemi, del male, delle fatiche, dei disinganni. Anime, potrebbe dirsi, ancora sensibili all’influenza ciascuna del proprio Angelo Custode, cui noi adulti contrapponiamo, in una specie di pratica dimenticanza e sordità, le nostre complicazioni e problematiche, appesantite di terra, e spesso di fango. Anime aperte e fresche, ma che hanno le inquietudini loro, che a noi adulti è difficile misurare e comprendere, forse per la stessa semplicità loro, a noi ormai desueta. E portano, anche, come l’eco delle asperità nostre, perché la vita di questi bimbi con la nostra si intreccia,e quest’echi, quell’anima dove modellare, se li trova talvolta frammezzo, come un ostacolo di più ed estraneo che solo lo Spirito può superare. La maestra, dunque, anzitutto, forgiatrice di questo modellare, autrice e protagonista di quest’incontro. La maestra di mia figlia Lucia –una maestra che ha compiuto nella sua scuola il miracolo di quell’incontro di anime che si diceva- è una figura deamicisiana. A vederla tra le sue bimbe le pagine del “Cuore” risorgono nella memoria e negli affetti come realtà viva che supera i tempi nei quali vennero scritte, testimonianza che l’anima umana è sempre una realtà eguale e l’arte per conquiderla, l’arte dello Spirito, sempre la stessa.

E’ una figura esile, luminosa, come certe maioliche di pregio, questa maestra, sorridente sotto una chiostra di capelli tirati alla moda delle nostre antiche zie, sui quali il brizzolato si impegna a nascondere il bianco. Due occhi vivi, un sorriso vivo che nascono da un’anima viva, si impegnano allo stesso modo –e vi riescono- a nascondere l’atto di nascita, che è vicino a mandarla in pensione. Quel sorriso vi è sempre, anche –ed anzi allora più vivo, pur se contenuto- allorchè gli occhi debbono qualche volta indurirsi in un necessario richiamo all’ordine e alla disciplina tra quella ventina di bimbe cui lo star ferme adugia come sempre adugia ai bambini.

L’attività  è incessante, e nasce e sgorga tutta da lei, da questa figurina di maiolica di pregio, da quest’esile maestra deamicisiana. Libri e programmi sono –come sempre, in ogni scuola, dovrebbero essere- occasioni o pretesti o strumenti di lavoro; non tutto di lavoro. Il più di questo è aldilà di quegli strumenti, nella vita che la vitalità esperta di questa esile maestra sa da sé trasfondere nella vitalità crescente di queste bambine.

(E su tutto e su tutte il Direttore: un ciociaro di spirito giovanissimo, ed insieme antico; di quegli uomini che a vederli, a parlargli, a conoscerli, sembra escano fuori da una pagina di Plutarco). Che una scuola così sia riuscita, come questa della mia piccola Lucia ad essere un incontro di anime tra loro, una serra dove crescono e fioriscono le amicizie più pure, più che non soltanto un incontro di memorie e di nozioni, si capisce. E vedendo quella deamicisiana maestra si ripensa, per ovvia associazione di idee, ad una delle più brevi, ma più belle e pregnanti similitudini del Vangelo: “Il Regno dei Cieli è simile ad un po’ di lievito, che una donna prese e nascose in tre misure di farina finché tutto fu lievitato”.

Ecco le tre misure di farina: venti bambine, o una di più o una di meno, che per tre anni sono state sotto lo sguardo, il sorriso, l’intelligenza d’amore, di questa esile donna lievitante. Erano ciascuna per sé, come granelli di farina, e venivan da venti case diverse –ciascuna con le sua amarezze e gioie, ciascuna con le sue virtù e i suoi difetti, ciascuna con le sue abitudini ed il suo tenor di vita, tutti diversi- ed ora son pasta lievitata, una e compatta, sono diventate da compagne amiche, anzi una amicizia sola (ed anche su questa parola, su questo dono, l’amicizia ci sarebbe da dire parecchio, quanto difficile sia perché sia vera. Come questa è vera).

Così, da questo comune incontro di anime al quale ciascuna partecipa, da questa amicizia sola, nascono i gruppi di più strette amicizie, i gruppi, le simpatie che è come nascono i fiori da una stessa pianta: che ciascun fiore è completo in se stesso, può fare e vive da sé, ma ha ragione d’essere e vita da quella pianta comune dalla quale tutti la hanno. E, tolti dalla radice di quella pianta comune, intristirebbero.

Lucia, Eva, Giulia sono i “tre moschettieri”. E’ ovvio che di Dumas le tre non abbiano letto neppure un rigo, o quasi; ma sono “i tre moschettieri” –lo sono fra loro, lo sono per tutta la classe, come immaginano loro; o forse, hanno scelto quell’insegna per il motto che Dumas dava ai moschettieri suoi: “Uno per tutti e tutti per uno” che potrebbe esser nello studio come nel tempo libero e nei giochi il  motto loro: il motto dell’amicizia vera. Nel fisico, nel temperamento, nelle abitudini familiari, Eva, Giulia e Lucia sono diverse; ma non per questo la loro amicizia sia meno a proposito sotto l’insegna dei tre moschettieri “Uno per tutti e tutti per uno”; non perciò la loro amalgama è meno profonda e perfetta. A renderla tale ha saputo agire lo Spirito: quello che quella maestra deamicisiana ha saputo immettere, come il lievito della donna del Vangelo, tra queste venti anime di bimbe, le quali altro non aspettavano che una luce che le facesse insieme lievitare con intelligenza d’amore.

La pianta e i fiori: questa amicizia è nata da questa Scuola; ma come i fiori che, nati da qualche pianta e vivi perché su quella pianta attaccati, vivono vita propria, così esse vivono nei loro gruppi e gruppetti, nei loro studi e nei loro giuochi nei loro incontri e nei loro pomeriggi in casa dell’una o dell’altra (oh, acrobazie dei parenti!); si cercano, si trovano, stanno insieme l’una con l’altra.

In questo insieme già così formato, in questa pasta già lievitata e amalgamata, l’anno scorso è capitato un granello di farina nuovo: una sbarazzina nuova che veniva, sia pure dopo una breve tappa, da lontano, da Tunisi; e la quale, anche per questo suo saper parlare francese e qualche parola d’arabo, suscitò subito l’interesse di tutte le altre. Nelle venti case, di questa Daniela, la sbarazzina che veniva da Tunisi, si parlò come di un evento da raccontare. Ma la pasta agglutinò subito il granellino di farina nuova: Daniela ebbe il suo gruppetto, le sue prime amiche che la immisero nei gruppi di tutte, come se la introducessero in società. Ormai, a vederla con le altre, chi potrebbe più misurare che per due anni e mezzo non è stata tra loro?

Daniela, con il suo Minouche, il gattino siamese che tutte le amichette coccolano e per il quale già si annuncia che alla festa di Daniela vi sarà, insieme alla torta con le candeline, una torta di lische di pesce e qualche invitato felino, perché facciano festa insieme.

Si ritrovano, dopo la mattinata a scuola a coppie ed a gruppetti per giuocare. Ma questo giuocare è spesso –e anche questo va detto- un lavorare insieme: uno studiare che nasce dal giuoco o che diventa giuoco e piacere, perché del giuoco ha l’interesse e la spontaneità. 

Ora da alcuni pomeriggi Lucia e Daniela si ritrovano per comporre, per quella loro maestra deamicisiana, un album di immagini, di fotografie, di notizie storiche e geografiche, sin che ne trovino ed a discrezione loro, sul Piemonte e la Valle d’Aosta. E tutto, per questa loro ricerca, è a soqquadro: dai libri smessi che si possono ritagliare al “Corriere dei Piccoli”, dalla “Enciclopedia dei ragazzi” a settimanali e rotocalchi, dalle collezioni di cartoline della sorella dell’uno e della mamma dell’altra sino alla mia solennissima “Treccani”. E menomale che Minouche sia siamese, non un gatto nato tra i prati del Valentino; se no nell’album ci ficcherebbero dentro anche lui.

Studiano, lavorano, giuocano, coltivano degli interessi spontaneamente insieme. “Chi lo direbbe, diceva l’altro giorno Daniela alla mia Lucia, che da tre pomeriggi stiamo sempre insieme?” E, sbarazzina, soggiungeva provocando: “Di’ a papà tuo che ci scriva un articolo”. Ecco, l’ho scritto. Perché, tra tanto parlare che della scuola si fa in astratto, e tra tante contestazioni mi è parso che una Scuola così meriti che di lei si parli. Perché mi è parso che lo meritassero i fiori dell’amicizia sbocciati nelle anime di queste bimbe e la pianta che li ha generati e nutriti nello Spirito, l’intelligenza d’amore della buona deamicisiana maestra loro e quel giardiniere di questo giardino che, con il suo volto da ciociaro antico e col suo giovanissimo cuore, sembra esca dalle pagine di Plutarco.

Pasquale Pennisi

Da un articolo apparso l’8 dicembre 1968 sulla “Voce Adriatica”

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